Il sapore della nostra terra

A quel tempo i caseifici, e quello della immensa Tenuta Riviera, famoso per il formaggio pregiato che si ricavava dal latte di mucche rosse, di razza Reggiana, erano una sorta di piccolo universo nel quale ogni giorno, nel viavai dei contadini che conferivano il latte, si intrecciavano le storie di vita, e di morte dell’intera comunità.
Avrei tanto voluto iniziare lì la mia carriera, nel caseificio della tenuta dove sono nato, ma un fatto increscioso me lo impedì.
Dio mio, che effetto mi fa ripensare a quanto tempo è passato da allora.
Ricordo perfettamente il giorno in cui, nel caseificio della Tenuta Riviera, a San Bernardino, già famoso per la grande maestria del casaro, accadde un grave fatto di cronaca.
Uno dei garzoni, geloso della fidanzata, la attese sulla porta di casa, al rientro dalla “Veglia dello Sport” di SantaVittoria e le sparò alcuni colpi di pistola. Poi, dopo aver vagabondato nella notte attraverso i campi, si recò al caseificio dove lavorava, svegliò il casaro, gli confessò il crimine e lo pregò di recarsi in paese per accertarsi se l’Oredanna fosse morta. Quando, alle prime luci dell’alba, vide due carabinieri avvicinarsi in bicicletta, Avio entrò nella camera della caldaia a vapore, si sedette sul mucchio del carbone e, con la stessa pistola, si tolse la vita. La povera Oredanna aveva da poco compiuto diciotto anni .
La gente sembrò scusare l’omicida e colpevolizzare quella ragazza che esprimeva, forse un po’ troppo allegramente la sua prorompente bellezza:
C’la melnèta lè l’ha g’ha fat perder la testa; l’era un brev ragas, un bon partii, sis fusen sposee i gheven al cul in dal buter an g-mancheva sol al lat ed galena-.

Il fatto di sangue ritardò l’assunzione di un nuovo aiuto casaro o, come si diceva allora: sot caldera, (pronunciato con la e aperta, nel nostro dialetto) ed io fui assunto in un caseificio altrettanto qualificato a fianco di un maestro casaro, che, più che alla tecnica e alla chimica, si affidava al proprio istinto.
Il lavoro era pesante e ininterrotto, dall’alba al tramonto, dalla primavera fino al tardo autunno, ma  lo stipendio era buono e dava la garanzia di poter vivere con dignità, inoltre mi si presentava l’occasione di imparare un’arte antica che, fin da bambino, mi aveva sempre incuriosito e affascinato.
Nel caseificio eravamo in tre garzoni, il più anziano di servizio aveva il compito di sostituire il titolare qualora si fosse assentato. Rimasi in quel caseificio per una decina d’anni durante i quali al casaro non venne mai nemmeno una linea di febbre.
Tutte le mattine dopo il dosaggio del siero innesto, e del caglio, fatto dal casaro, ad ognuno di noi era consentito portare a termine la cottura della forma nella caldaia. Tastando continuamente la cagliata, dovevamo rincorrere l’operazione di separazione del siero dalla cagliata stessa, aumentando gradatamente il vapore per arrivare alla consistenza giusta e alla temperatura esatta della amalgama, tenendo sempre in movimento il liquido con una apposita rotella in una mano. Con l’altra mano si tastava e si giudicava, e si doveva decidere guardando bene di non sbagliare. Solo l’esperienza era buona consigliera, perché ogni giorno poteva cambiare il titolo di grasso e di caseina, o il P.H. del siero, e si doveva intervenire tempestivamente, a seconda del bisogno.
Giunti poi alla temperatura adatta, mezzo grado poteva rovinare il formaggio, si chiudeva il vapore, si smetteva di far girare il contenuto della caldaia, si lasciava depositare la caseina, e dopo un riposo più o meno breve, si prendeva la pala di legno. Prima di immergerla era tradizione fare una croce sul velo di siero superficiale, un rituale a metà tra scaramanzia e religione, poi con la pala si eseguiva la manovra di sollevamento della massa di caseina depositata e legata sul fondo della caldaia. Quando il tutto affiorava era il momento di esprimere un giudizio sommario sul futuro della forma avviata alla stagionatura.
Il secondo giudizio più severo, era quello del mattino successivo sull’aspersore, dopo che la forma era rimasta pressata tutta la notte sotto il tagliere appesantito da un blocco di marmo per favorire la fuoriuscita del siero rimasto all’interno.
Poteva accadere che il tutto si gonfiasse o addirittura che il marmo rovinasse sull’aspersore;  era il segnale di una partita di latte proveniente da una vacca affetta da mastite, o che le era stata iniettata nel capezzolo una dose di penicillina.
In una delle solite assemblee dei soci, il Consiglio di amministrazione della latteria, decise di far partecipare due garzoni ad un corso teorico pratico di tecnica casearia all’Istituto Agrario A.Zanelli di Reggio Emilia.
Furono scelti i più giovani, perché, si sa, il progresso ai giovani risulta meno indigesto.
Io e Luciano avemmo la fortuna di avere come insegnanti il prof. Tromellini e il prof. Cusmano che, oltre ai preziosi insegnamenti chimico-tecnici, ci trasmisero quel tocco di saver fer psicologico, indispensabile in ogni attività umana.
Facendo tesoro di quello che il prof Tromellini non si stancò mai di ripetere: “chi fa il buon formaggio è il contadino, poi viene il casaro”, proposi di stabilire dei contatti coi soci del caseificio andandoli a trovare a casa loro, per metterli al corrente dei benefici che tutti avrebbero tratto da una fattiva collaborazione. Ci spartimmo le famiglie da visitare, in base alle nostre conoscenze, le parentele, l’età dei componenti il nucleo, tenendo presente anche le idee politiche, le passioni sportive, insomma quando si varcava la soglia di casa, dovevamo essere certi della benevola accoglienza, e non di rado capitava che la resdora ci desse il benvenuto con un salame e una bottiglia di vino nero, col tappo di sughero legato con una corda, che garantiva la provenienza dalla miglior botte.
Mi sento orgoglioso d’aver contribuito a quel piccolo grande miracolo che dal latte di una mammella bovina porta a ricavare, quasi fosse un lungo parto, l’unico formaggio al mondo fatto di solo latte, caglio e sale, che è possibile ottenere solo alla destra del Po e alla sinistra del Reno e che, forse per questo, ha dentro tutto il sapore delle nostra gente.
Ancora oggi le mie dita hanno conservato la memoria di quei gesti quotidiani che per anni hanno controllato la temperatura giusta per la cottura della cagliata e potrei tranquillamente usarle come termometro… naturalmente in gradi Reamur, e non Celsius.

Una risposta a “Il sapore della nostra terra”

  1. Valerio ha detto:

    Sono bellissimi i tuoi racconti zio. Hai la capacità di far apparire bellissimi gli anni della tua gioventù (e di conseguenza quella dei miei genitori) nonostante la povertà di allora e di renderli desiderabili anche per chi come me è nato “con al cul in dal boter”…

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